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Nel nome del padre - Sogna il mondo che vuoi ®

18 Dicembre 2018da MARINA0

“Padre”, paternità, genitorialità, (ma anche madre e maternità), parole comuni, spesso abusate, talvolta “titoli” in nome dei quali si giustificano dichiarazioni e azioni.

Certamente un ruolo difficile da interpretare, che sia ufficiale o di sostanza, ma in ogni caso importante.

Qualche giorno fa mi trovavo su un pullman gremito con accanto un bambino piccolo, il padre e l’ultimo nato. Il padre appariva un uomo assolutamente affettuoso e attento, tuttavia, probabilmente per la stanchezza del lungo viaggio, mentre coccolava il più piccolo, al manifestare scomodità del bimbo più grande (forse anche richiesta di attenzione) lo azzittiva lasciandosi uscire una frase infelice di rimprovero non proporzionato. Osservando i bellissimi occhi verdi del bimbo, il suo sguardo, le mascelle serrate, mi domandavo chissà quante ferite interiori si formano a partire da eventi banali come questo o come quando la mamma anziché rispondere subito al pianto, finisce di preparare il pasto del bambino.

Grandi madri e grandi padri fanno del loro meglio il più delle volte,  ma proprio quell’unica volta in cui si è troppo stanchi  gli eventi, la distrazione o altro possono far  mettere in discussione se stessi o possono essere all’origine di un piccolo evento di crisi.

Cosa significa però essere madre ed essere padre? Non posso certo rispondere io che non sono un’esperta e nemmeno ho dei figli. Tuttavia il mio amore per la conoscenza delle dinamiche che coinvolgono l’essere umano, le vastissime esperienze che ho visto anche da vicino mi fanno ritenere quantomeno che non è vero come si dice “nessuno nasce padre o madre, si diventa strada facendo”. Quanto meno non si diventa un “buon genitore” senza impegno.

La cultura, soprattutto quella italiana, anche se la situazione economica ha portato nel tempo a diventare un paese più di “nonni” che di nuovi “nipoti”, spinge in automatico a sposarsi e a fare figli, ma questo automatismo spesso è dannoso sia per gli adulti, che non sono ancora pronti, sia per i futuri figli su cui ricadranno frustrazioni, errori, incapacità. Talvolta un padre (o una madre) impara cosa vuol dire essere genitore solo quando diviene nonno.

Ognuno ovviamente lo interpreta in modo diverso, ma mettere semplicemente al mondo un figlio non è essere genitore. Senza andare agli eccessi di violenze e abusi vari, accogliendo nella propria vita un nuovo essere, nato naturalmente, in affidamento, in adozione, sotto tutela o qualsiasi altra forma, si accoglie un’anima da accompagnare per un tratto di strada per offrire ciò che occorre perché questi cresca, si sviluppi e faccia la sua strada.

Troppo spesso vi sono aspetti disfunzionali per cui padri e madri si comportano come figli dei propri figli, come proprietari dei propri figli e altro; d’altra parte è vero che anche questo fa parte del gioco di alcune  “lezioni” da imparare in una certa vita.

Ci sono tantissimi bravi genitori ovviamente, ma in particolare la mia attenzione in questo momento va alla figura paterna che dovrebbe teoricamente, anche se non solo e non esclusivamente, essere quella persona che interpreta un ruolo educativo, di insegnamento delle regole, di indicazioni ed esempio di responsabilità per muoversi verso il mondo.

Cosa accade allora se un figlio cresce senza un padre, perché assente, perché morto, perché inadeguato?

Le figure che stanno intorno certamente integrano il “pacchetto famiglia”, ma per qualcuno questo può voler dire invece crescere come un adulto irresponsabile, o un adulto pauroso o un adulto che in qualche modo non ha integrato i concetti di “responsabilità, regole, volontà”, con tutte le ovvie conseguenze.

Le “colpe” e gli “errori” dei padri devono necessariamente ricadere sui figli? Oltre a certe dinamiche da sciogliere, certi tratti di strada percorsi in qualche modo insieme, oltre a un esempio cui ispirarsi o da cui sfuggire i figli non sono forse creature venute al mondo a loro volta per manifestare la propria individualità?

Per fortuna l’essere umano ha il libero arbitrio e ogni giorno può fare scelte diverse e crescere ed imparare nuove opzioni che lo fanno evolvere ed uscire da quei meccanismi che lo rendono dipendente e prigioniero di se stesso, ma occorre “lavoro”. Si tratta appunto di integrare quel “padre”, quel qualcuno che non c’era a rappresentare e insegnare anche quei “no” che aiutano a crescere.

I figli non sono pedine, non sono proprietà, non sono un’estensione, ma non sono nemmeno esseri che per sempre saranno “condannati” a causa di un “cattivo” o “inesperto” genitore.

Buon lavoro a chi si appresta consapevolmente a diventare genitore e buon lavoro a chi lavora per il proprio bambino interiore per integrare ciò che necessario.

Lasciare andare il passato, trovare il binario della propria vita, indipendentemente da cosa di grave o meno grave è accaduto o dalle mancanze e ferite che si possono sentire, è possibile attraverso un importante e costante lavoro di integrazione. Fatica, esercizio, impegno, responsabilità, sperimentazione guardando all’orizzonte i propri sogni introiettando dentro di sé la figura del padre.

Senza, si rimane nella “fantasia”, integrando il genitore del nostro bambino possiamo invece usare una speciale “bacchetta magica” che non è altro che la volontà per manifestare i propri sogni.

Nel nome del “Padre”….sia fatta la “Volontà”

 

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MARINA

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a cura di Marina Pillon