Fare teatro non è mai facile. Come molte arti richiede impegno, ma soprattutto una grande passione che sola può ripagare di tutto il tempo e le energie che si investono. Sarà per il sangue della mia bis nonna materna che faceva l’attrice itinerante, ma credo davvero possa essere una delle “arti magiche” capace di insegnare, trasformare, canalizzare o anche solo emozionare.
Ci sono tante forme di teatro e tutte, come d’altronde per me ogni cosa della vita, possono essere occasione di insegnamento o di riflessione.
Spesso prendiamo troppo sul personale certe vicende, ci barrichiamo sulle nostre posizioni, ci irrigidiamo su principi o credenze perché magari un tempo erano utili o di base avevano uno scopo e un senso positivi, ma ora possono solo crearci danni.
Riflettevo in questi giorni sulla rigidità, talvolta addirittura aggressività, con cui le persone interagiscono di persona o sui social, disponendosi con forza granitica su una posizione in attacco a quella che improvvisamente diviene non più semplicemente una visione differente, ma quella avversaria, nemica, da sconfiggere.
Paure, ignoranza, manipolazioni, informazioni errate, difficoltà a mettersi in discussione o la paura che l’altro possa approfittarne se si lascia uno spiraglio e molti altri elementi fanno sì che quasi sempre “tra i due litiganti il terzo gode” e raramente il terzo siamo noi.
Nelle settimane scorse sono andata a vedere la performance teatrale “Il processo – Uno strano caso di asineria”, commedia di Dürrenmatt, messo in scena da Accademia Attori con la regia di Silvia De Rossi.
Oltre all’emozione nel rivedere alcuni ex compagni di scena sul palco, è stato davvero interessante rivedere le riflessioni di cui parlavo portate sul palco.
Immaginate il racconto di un processo relativamente all’uso dell’ombra di un asino, avvenuto nell’antica Grecia. Inizia con un dentista, uomo di ceto alto, che affitta un asino all’ombra del quale a un certo punto si siede e da lì sorge la discussione con l’asinaio, uomo “del popolo”, che lo accusa di aver pagato l’asino, ma non la sua ombra. Apparentemente un banale contrasto tra individui di due differenti classi sociali che però, proprio come molte discussioni ai tempi odierni, finisce in uno scontro acceso. La controversia iniziale infatti prende pieghe inaspettate, finendo in tribunale dove il giudice inizialmente sembra riuscire a mediare nel conflitto, fino a che non intervengono gli avvocati delle due parti. Da quel momento, in modi surreali e tuttavia facilmente riscontrabili in molte vicende dei giorni nostri, il conflitto, dietro a un’apparente lotta per ideali supremi, devia progressivamente assumendo contorni sempre più ampi coinvolgendo l’intera città facendo risaltare vizi, corruzione, interessi economici e politici.
Una commedia elegante e ironica fino all’assurdo che riprende un passato eternamente presente con l’inevitabile finale di disfatta per tutti.
Su un palco la “battaglia per l’ombra di un asino” può essere momento di apprendimento, di messa in scena delle capacità degli attori nei cambi di personaggio, nella memoria dei tanti dettagli, nei tempi e nell’espressione delle proprie capacità espressive, con un risultato tanto più importante quanto è stato l’impegno e l’esasperazione di certe caratterizzazioni e differenze. Nella vita invece le cose sono ben diverse; l’incapacità di mediare, di andare oltre i piccoli egoismi, le proprie rigidità, i pensieri limitanti di scarsità e assenza di fiducia, la paura dell’altro diverso da noi, sconosciuto, che ci rimanda magari qualcosa di noi che non vogliamo vedere, qualcosa che siamo stati, qualcosa che vorremmo essere, qualcosa che non sappiamo come integrare porta inevitabilmente alla disfatta.
Magari se si vive un’enneafase capo sarà difficile concepire che non debba esserci per forza un vincitore, in un’enneafase mediatore di contro si potrebbe tendere sempre a cercare una via pacifica per la paura di dover affrontare un confronto, anche laddove sia importante. In un contrasto vivendo in un’enneafase perfezionista si tenderà a uscirne come quello perfetto, nel giusto, in un’enneafase eremita come quello che ha ragione e in un’enneafase scettico si metterà tutto in dubbio prima come anche dopo. Forse in un’enneafase altruista si cercherà di usare tecniche meno dirette nell’approccio così come in un’enneafase romantica le emozioni in campo potrebbero alimentare in un verso o in un altro l’evoluzione della faccenda. Probabilmente in enneafase manager si sarà concentrati sul risultato finale e sull’immagine personale che esce da una discussione, anche se poi come un colpo di spugna riprenderebbe la sua strada come non fosse accaduto nulla. Quasi certamente in un’enneafase artista ci sarebbe poco spazio per un conflitto e soprattutto si cercherebbe di trovare il modo che la contesa non causasse un blocco, una limitazione, una “palla al piede” nell’incedere dell’assaporare la vita.
In qualunque fase si stia vivendo, a meno che non si tratti di uno spettacolo da portare in scena in teatro, meglio tenere ben a mente che i conflitti fuori e dentro di noi, sempre, portano a delle perdite, anche quando si esce come apparenti “vincitori”. Come dicono certi saggi, l’unica battaglia che davvero si vince e’ quella che non si combatte.
Certamente la convivenza in spazi e gruppi richiede adattamenti. Maggiore è l’ampiezza dell’ambito osservato maggiore sarà l’eterogeneità con diversità di bisogni, necessità, pensieri, abitudini, desideri e probabilmente ogni individuo sentirà delle mancanze, degli eccessi, delle difficoltà maggiori di integrazione. Se si trovano delle mediazioni ciascuno però potrebbe trovare il modo di sentire salvaguardato un elemento che reputa davvero fondamentale. Quando i contrasti prendono pieghe inaspettate con toni accesi e ciascuno si barrica dietro alle trincee delle proprie convinzioni cristallizzate improvvisamente si viene catapultati in un campo di battaglia dove il giustizialismo a tutti i costi, il garantismo a tutti i costi, il liberismo a tutti i costi, l’appiattimento a tutti i costi sostituiscono i punti di contatto da cui partire per una mediazione. Ci si trova quindi in uno scenario di battaglia dove magari i più “furbi” porteranno a casa “bottini” delle varie parti, ma tutti avranno poi delle perdite. Non è forse allora meglio trovare prima dei modi affinchè ciascuno abbia in sicurezza ciò che davvero reputa più importante per il “mondo che sogna” invece di ritrovarsi tutti con ciò che rimane, sempre che qualcosa resti?
In ogni confronto sano che devia in uno scontro ci sono sempre terze parti che si insinuano per alimentare ulteriormente il conflitto fino a rendere impossibile una mediazione sana. Può trattarsi di comportamenti egoistici di terzi, come nostri meccanismi interiori che comunque ci sabotano. Che si tratti di proprie credenze limitanti reattive o soggetti esterni che vogliono guadagnarci da controversie altrui, proprio come nella commedia de “Il processo” si tratta di diffusi e non “rari casi di asineria”.
Fuori e dentro di noi occorre, seppur faticosamente, trovare il modo di far convivere i vari punti di vista che stanno dietro alle bandiere di “falsi e rigidi principi”, che poi probabilmente l’unico vero “principio” per cui vivere e “battersi” e’ l’amore.